Avete mai fatto caso che negli anni recenti abbiamo assistito ad una vera e propria proliferazione di prodotti che affermano di essere sostenibili?
Termini come Biologico, Biodinamico, Da Agricoltura integrata, Senza olio di Palma, Senza additivi, Equo e solidale, da agricoltura sostenibile, Filiera certificata, cresciuto all’aperto, No-OGM, Vegan, ecc.. sono ormai diventati di uso comune, di solito abbinati ad un sistema di etichettatura in cui abbondano fiori, foglie, alberi, api ed altri simboli che nell’immaginario collettivo significano più o meno “naturale”, più o meno “giusto”, più o meno “green”.
Una giungla in cui la prima vittima siamo noi che vorremmo fare acquisti davvero “sostenibili” e che, nell’eccesso di informazioni in cui siamo sommersi, finiamo per essere disinformati. E a volte truffati!
E la seconda vittima è proprio la parola “sostenibile”, svuotata ormai da ogni significato concreto e sostituita dallo storytelling del green.
Il Biologico è davvero sostenibile?
A creare ulteriore confusione, anche il mondo accademico è diviso sul reale significato e sulla reale sostenibilità di certe pratiche. Lo stesso biologico ha creato una netta divisione: da una parte coloro che lo considerano solo una prima fase di una vera transizione agro-ecologica, necessaria per affrontare le sfide epocali del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e della disuguaglianza sociale; dall’altra, al contrario, coloro che sostengono che il biologico non sarà mai in grado di sfamare la crescente popolazione mondiale e che costituisca un approccio “ideologico” che impedisce il vero progresso scientifico e l’innovazione (vedi ad es. l’utilizzo di OGM o NBT – New Breeding Technologies).
Non volendo entrare nel merito del dibattito scientifico, è del tutto evidente riconoscere – per persone di buon senso – che ci debba essere un limite alla pressione che i nostri sistemi esercitano sia sull’ecologia mondiale che sulla disuguaglianza sociale, e che non possiamo continuare a sfruttare e depauperare risorse, che si tratti di lavoratori o di risorse naturali, di quella che è la nostra comune casa, il pianeta Terra.
Responsibility is the new Sustainability
Proviamo allora a sostituire l’aggettivo “sostenibile” con l’aggettivo “responsabile”, che ci ricorda come la filiera agroalimentare debba mirare a soddisfare i bisogni delle generazioni future oltre che quelle attuali.
I principi di una produzione agricola responsabile dovrebbero essere basati su:
- Sostenibilità ambientale: la produzione agricola dovrebbe essere gestita in modo da preservare le risorse naturali e l’ambiente.
- Efficienza economica: la produzione agricola dovrebbe essere economicamente sostenibile e redditizia.
- Responsabilità sociale: la produzione agricola dovrebbe essere socialmente responsabile e garantire condizioni di lavoro eque e dignitose per tutti.
Tutto questo è più facile a dirsi che a farsi.
Come faccio a comunicare che un produttore è davvero “responsabile” e come faccio a trasferire questa informazione al consumatore finale nel mare magnum della disinformazione e dello storytelling green?
Certificazione vs Partecipazione
Una possibile soluzione è la certificazione terza (ovvero effettuata ad opera di organismi preposti) che però soffre di alcune limitazioni e contraddizioni:
- Di solito la certificazione affronta solo alcuni aspetti della responsabilità concentrandosi ora su un tema, ora sull’altro (ad es. sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, filiera corta, rispetto animale, ecc..)
- Di solito il controllore è pagato dal controllato il che costituisce un palese conflitto di interessi e periodicamente assistiamo infatti a scandali che denotano scarso controllo – se non addirittura la compiacenza – da parte degli organismi controllori
- La certificazione implica un carico burocratico ed un costo spesso insostenibili per le piccole aziende e la burocrazia spesso prevale sulle verifiche sul campo
La garanzia partecipata è invece un sistema di certificazione alternativo alla certificazione terza che coinvolge i diversi attori della filiera agroalimentare, tra cui agricoltori, consumatori, operatori commerciali e associazioni.
Si basa su un approccio partecipativo e collaborativo, in cui tutti gli attori della filiera lavorano insieme per garantire la qualità e la sostenibilità dei prodotti. Il sistema è gestito da un’assemblea che definisce gli standard ed i metodi di controllo.
I vantaggi della garanzia partecipata rispetto alle certificazioni terze sono molteplici:
- Partecipazione: il sistema è aperto a tutti gli attori della filiera (di solito filiera locale o corta), che contribuiscono alla definizione degli standard e dei metodi di controllo assicurando che siano più vicini alle esigenze dei consumatori e degli operatori della filiera.
- Collaborazione: il sistema promuove la collaborazione tra gli attori della filiera, che lavorano insieme per garantire la qualità e la sostenibilità dei prodotti. Ciò può portare a un miglioramento della qualità dei prodotti e a un aumento della sostenibilità della produzione agricola.
- Adattabilità: il sistema è flessibile e può essere adattato alle esigenze specifiche di ciascuna realtà. Ciò lo rende più adatto alle piccole e medie imprese agricole.
- Costo: la garanzia partecipata è spesso più economica e meno burocratica delle certificazioni terze.
Comunità del Cibo Locali
In Italia vi sono molti esempi virtuosi di comunità locali che hanno adottato sistemi di garanzia partecipata in alternativa o in complemento alla certificazione terza.
Un esempio fra tutti è il DES di Parma, nato nel 2003 da una rete di operatori del consumo critico e l’Economia Solidale (ES), e gruppi di acquisto solidali (GAS) che decidono di lavorare insieme per valorizzare e promuovere pratiche di economia solidale fondate sulle relazioni fiduciarie e solidali fra i soggetti della comunità.
Il DES Parma oggi conta circa 30 aziende agricole, 3 consorzi, 5 tra associazioni e cooperative sociali, circa 30 GAS per un totale di oltre 1000 famiglie che acquistano prodotti per un valore di circa mezzo milione di € / anno! Un successo enorme!
In Italia oggi esistono oltre 180 Distretti del Cibo ufficialmente riconosciuti dal ministero e molti di questi – seppur ciascuno con una propria peculiarità – hanno come obiettivo l’implementazione di politiche territoriali volte alla promozione della tipicità e della cultura locale, alla salvaguardia del territorio e del paesaggio, alla realizzazioni di filiere locali e corte, al turismo sostenibile e all’integrazione sociale.
Inoltre oggi esistono centinaia di altre associazioni di attori di filiera locale (ad es i Biodistretti INNER o AIAB), che fondano i propri statuti sui concetti di tipicità, tradizione, sostenibilità e solidarietà.
Se tutte quante queste comunità locali adottassero sistemi di garanzia partecipata – promuovendosi a garanti delle buone pratiche ed etiche territoriali – e se queste fossero facilmente raggiungibili tramite una piattaforma tecnologica, i consumatori non avrebbero più dubbi su quali prodotti acquistare.
E con i loro acquisti premierebbero le pratiche virtuose e contribuirebbero a creare una solida rete di comunità locali realmente sostenibili.